IL TAI CHI DI “EASY RIDER”

I “figli dei fiori” e la degradazione di un’arte marziale

Nella seconda metà degli anni sessanta  il clima di contestazione  nei confronti della società tradizionale indusse molti giovani a rivolgersi alle filosofie dell’Oriente.

La loro era una ricerca motivata dal desiderio di trovare valori e  significati della vita  diversi da quelli precostituiti, quelli imposti dal conformismo dell’ipocrita società borghese (tanto per usare una definizione usata in quel periodo).

Beatnik ormai sulla quarantina e giovani hippies vennero quindi attratti dall’Oriente (oltre che dalla cosiddetta “esperienza psichedelica”, indotta da droghe come l’LSD).

Sta di fatto, però, che l’ineluttabile vocazione “economicista” della società dei consumi intravide in questa  predisposizione dei “figli dei fiori” un potenziale affare, un nuovo “mercato” da soddisfare, quello della spiritualità a basso costo.

Fu così che discipline come lo yoga cominciarono ad avere un largo seguito. In questo clima si crearono pure le condizioni  affinché si diffondesse  il Tai Chi Chuan (ancora nessuno utilizzava la moderna grafia Taiji Quan).

Il Tai Chi venne quindi sponsorizzato e propagandato come una sorta di  “yoga cinese”, “yoga in movimento”, meditazione in movimento”, ecc. Definizioni riduttive o addirittura fuorvianti  che in qualche caso vengono utilizzate ancora ai nostri giorni.

Questo Tai Chi, edulcorato e depauperato dei suoi caratteri fondamentali, ridotto a volte a una mera “danza catartica”,  veniva visto come una valida alternativa allo yoga, spesso ritenuto “scomodo” e poco adatto alle caratteristiche fisiche (soprattutto “articolari”)  dell’occidentale medio. Il Tai Chi, visto esclusivamente come pratica  salutistica,  cominciò pertanto a insidiare il primato dello yoga.

Partendo dall’America,  vi fu tutto un proliferare  di “scuole”, nelle quali non solo l’aspetto marziale non veniva insegnato, ma dove anche molti degli stessi insegnanti occidentali (spesso improvvisati) nemmeno supponevano che dietro i lenti movimenti della forma potesse nascondersi un qualche “significato marziale”, una qualche “arte del combattimento”.

D’altra parte, quello che cercavano molte di quelle persone che si avvicinavano al Tai Chi era la fuga dall’esperienza quotidiana,  l’espansione della coscienza,  una qualche forma di “risveglio spirituale” che potesse essere ottenuto senza ricorrere alla pericolosa “scorciatoia” offerta dalle sostanze psicotrope e dall’esperienza psichedelica.  Un metodo “pulito e senza rischi” per entrare “in risonanza con l’universo”. Tutti temi, questi, che saranno cari a quel movimento di sub-cultura che si cominciava già a delineare in quegli anni e che è passato poi agli annali come “New Age”.

Un esempio della “qualità”  del Tai Chi di quel periodo è stato documentato in uno dei  più celebri film della storia del cinema, Easy Rider, di Dennis Hopper, girato nel 1969.

In una sequenza del film possiamo ammirare (si fa per dire) alcune figure, apparentemente della forma Yang, eseguite  dall’attore Robert Walker Jr., che si muove in una maniera inqualificabile sullo sfondo di un paracadute aperto a mo’ di sipario, in un bivacco hippy.

L’attore non stava improvvisando. Robert Walker praticava realmente Tai Chi ed aveva come compagni di lezione diversi attori di Hollywood: da John Saxon (che sarà accanto a Bruce Lee nel film I tre dell’operazione Drago) all’ormai matura Jennifer Jones, fino al giovane Nick Nolte, futuro pluricandidato agli Oscar.

 

Purtroppo questa connotazione  “pseudo-mistica” del Tai Chi contraddistingue ancora oggi determinate scuole. Intendiamoci, nessuno vuole negare o sminuire l’aspetto meditativo, salutistico o spirituale della disciplina, però gli sforzi di tante generazioni di maestri che hanno fatto evolvere il Tai Chi fino a farlo diventare una disciplina marziale temuta e rispettata, non possono  essere sviliti  riducendone  la pratica  a una pantomima  “liberatoria”.

Conosco per esperienza questo tipo di approccio. Il mio primo insegnante aveva un lungo passato di cultore e maestro di yoga. Mi confessò che aveva intrapreso lo studio del Tai Chi  per cercare di risolvere i problemi alle ginocchia “distrutte” (usò proprio questo termine) dalla pratica dello yoga

Era comunque bravino: morbido, fluido, rilassato. Conosceva (addirittura) il “senso marziale” delle varie figure. Sta di fatto che quando ne dimostrava le applicazioni pratiche… faceva sorridere: innanzi tutto chiedeva che i colpi gli venissero portati “al rallentatore”, mostrava poi una totale disabitudine al confronto reale: in quello che faceva non si poteva intravvedere un briciolo  di efficacia.

Ovviamente non era lo stile (Yang) che praticava questo mio primo insegnante ad essere marzialmente inutile,  quanto l’impostazione della pratica, proposta come una sorta di percorso trascendentale vagamente ”mistico-catartico”.  Il mio primo approccio con la disciplina, che tanto ho potuto poi apprezzare negli anni, fu quindi un po’ deludente, ma quello era ancora un Tai Chi da…”figli dei fiori”, non l’arte marziale che mi si sarebbe rivelata da lì a pochi anni (attraverso ben altri maestri).

Va comunque ribadita una cosa: la degradazione sofferta dal Tai Chi Chuan, sin dalla sua prima apparizione in Occidente,  aveva  già avuto un illustre precedente. Sì, perché questo genere di deviazione dalla fonte originaria è  insito nella storia stessa della disciplina e inizia, secondo alcuni, con l’arrivo di Yang Lu Chan  a Pechino, nella prima metà dell’Ottocento.

Si racconta che, giunto nella capitale per sfuggire alla vendetta della famiglia di un maestro rivale ucciso in una sfida, Yang Luchan (1799-1872) si rese conto che modificando e ammorbidendo lo stile appreso dalla famiglia Chen avrebbe potuto far breccia nei gusti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, i cui esponenti erano poco propensi al sudore, al duro allenamento e ai “lividi”. Essi, invece, apprezzarono molto  gli aspetti salutistici della nuova disciplina.

Però il Tai Chi che aveva appreso Yang Luchan presso il villaggio Chen era efficace, eccome!  Tanto è vero che nel corso del tempo si meritò l’epiteto di ’’Invincibile”, uscendo sempre imbattuto da tutte le sfide sostenute con i tanti maestri di altre arti marziali che nel corso del tempo lo sfidarono. Va anche considerato poi, che sia lui sia il suo secondo genito, Yang Banhou (1837-1892), furono istruttori della guardia imperiale. Ora, c’è qualcuno che può pensare  che  sarebbe stato possibile ricoprire questo ruolo addestrando l’élite dei guerrieri cinesi soltanto attraverso una qualche forma di “ginnastica medica” o  un qualche tipo di “meditazione in movimento”?

Personalmente presumo che, a qual tempo, si andarono delineando due tipologie di Tai Chi: uno “esoterico” (nel senso di “segreto”, “interno alla famiglia”) e uno exoterico, cioè “pubblico”, “esterno”: il “vino buono” veniva bevuto in casa, quello annacquato veniva venduto fuori.

L’impronta salutista del Tai Chi divenne col tempo sempre più  preminente, fino a diventare molto marcata nell’insegnamento del  nipote di Yang Luchan,  e cioè Yang Chenfu, considerato da molti  come il “fondatore” del Tai Chi moderno. Il successo del suo insegnamentoi fu considerevole, mentre il fratello Yang Shaohou (1862 – 1930), che si ostinò a proporre l’arte di famiglia in tutta la sua integrale connotazione marziale, ebbe ben pochi allievi. Rimane traccia del suo metodo in poche scuole della Cina, e in altre del sud est asiatico.

Ritornando agli anni sessanta, sappiamo che nel 1964 Cheng Man Ch’ing portò  negli Stati Uniti una versione semplificata  dello stile della famiglia Yang, senza tuttavia snaturare ciò che aveva appreso dal suo maestro, Yang Chenfu. L’opera di Cheng Man Ching è stata fondamentale e indubbiamente encomiabile. Non lo è stata , però, quella  portata avanti da tanti epigoni, che assecondando le richieste di quel  mercato “salutistico-spiritualista” che si veniva creando a cavallo fra gli anni sessanta e settanta hanno sempre più “annacquato” il Tai Chi riducendolo  quasi ad “acqua fresca” (magari… “purificatrice,  “miracolosa” e “benedetta”… ma sempre “acqua”.), dandogli una connotazione esclusivamente “contemplativa”, “catartica”, “igienica”.

Per certi versi, il Tai Chi ha subito  una forma di degradazione,  analoga a quella che ha rovinato gli ecosistemi naturali. Quella degradazione causata dall’uomo, per la quale la foresta è diventata bosco, il bosco si è trasformato in macchia, la macchia si è deteriorata fino a diventare  gariga… Vorremo evitare che questo decadimento svuotasse totalmente il Tai Chi,  privandolo  della sua essenza originaria, dei suoi molteplici aspetti, trasformandolo in una “steppa sterile e desolata”.

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